Una famiglia contadina racconta-3-dicembre 1968-2

Una famiglia contadina racconta
Testimonianze

San Marino, dicembre 1968
Ghisleri - Avevamo parlato l’altra sera dell’atrio d’ingresso del palazzo padronale; avevate detto che erano stati creati apposta questi ambienti; vogliamo riprendere l’argomento? Fanzani - Adesso magari ci mettono dentro l’automobile, ma una volta, quando ero ragazzo, li usavano. C’era il portone grande d’ingresso, l’atrio, da una parte le sale e dall’altra le cucine. Quando ero giovane pesavano i bozzoli in quell’atrio. Prima di portarli alla pesa del padrone i contadini li pesavano in casa. Là nell’atrio c’era una pesa grossa con due cavalletti, con la stadèra; avevano la tela, vuotavano il paniere nella tela, il padrone pesava e man mano segnava; la tela aveva già la tara, ogni famiglia controllava il suo peso. Fatta la pesatura li rimetteva nei nostri panieri e col carro li portavamo alla filanda e là bisognava pesarli ancora. Partiva il carro dei bozzoli con sopra le donne; alla filanda altra pesata, là più precisa. Se il padrone comperava subito la nostra parte, allora non li teneva più divisi, li raccoglieva nei suoi panieri. Alla filanda non pagavano subito; noi controllavamo il peso e dicevamo: “Però! Quello ne ha fatti tot, quello tot”. Raccogliere i bozzoli era un lavoro che durava una settimana e si andava alla filanda due o tre volte: una volta erano cinquanta chili, l’altra sessanta, un’altra venti, si arrivava a fare 125-130 chili. Alla fine sommavano le consegne; noi sapevamo già il totale, il padrone lo stesso e dopo veniva a casa coi soldi. Ghisleri - Era il padrone che prendeva i soldi della filanda? Fanzani - Sì. Dopo, a casa, si andava a fare l’ordinario dei bozzoli, ci chiamava nello studio. Ghisleri - Il contratto lo faceva il padrone con la filanda? Fanzani - Sì, ma prima sentiva il nostro parere, questo succedeva prima di raccogliere i bozzoli. Prima incominciava a sentire il prezzo delle piazze; allora erano le piazze, adesso sono i mercati: c’era la piazza di Vescovato, la piazza di Soresina, la piazza di Casalbuttano. Il padrone andava a Cremona e si informava, ci chiamava e diceva: “La tal piazza fa venticinque, quell’altra fa trenta, cosa dite?” Cosa vuoi, gli dicevamo: “Faccia lei, signor padrone”. Cercava sempre la migliore. Dopo ci chiamava ancora: “Ho lasciato l’ultima parola però sono venuto a sentire se siete contenti; ci danno ventotto, ci danno trenta, cosa dite? Torno a confermare? Ho sentito che su quella piazza hanno pagato di meno”. “Allora prendiamo questa. “ “Torno a confermare”. Invece andava a letto perché aveva già fatto il contratto. Tutte chiacchiere. Mi ricordo che un anno mio cugino aveva preso mille lire dalla vendita dei bozzoli; erano seduti attorno al fuoco, sarà stata la bambina? Mah. Sono caduti nel fuoco? Non li hanno più trovati, povera gente! Ti ricordi la Gènia? Con quei soldi potevano fare uno sposalizio, pigiare e comperare il maiale; è stato un disastro. Ghisleri - Usavano l’atrio per altri lavori? Fanzani - La linosa no, la pulivano sotto il portico e la dividevano secondo misure di mezzo staio. Il lino invece, lavorato, legato, veniva portato nell’atrio e ancora con la stessa pesa veniva pesato e diviso. Il padrone ne aveva tanto e il suo lo vendeva. Invece noialtri lo tenevamo, le donne lo filavano e facevano la tela. Ghisleri - Nella cascina c’era il caseificio? www.orasesta.it
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Fanzani - Le cascine grandi il latte se lo lavoravano loro, avevano il casaro in cascina. Ghisleri - Nella nostra zona ne ho visti pochi. Fanzani - Adesso, ma quando ero giovane. Dunque, sono stato al Prà e c’era il caseificio; sono stato a Pozzaglio da Poli, aveva il caseificio. Ghisleri - Ad Acqualunga c’era? Fanzani - Non mi ricordo, c’è sempre stato il mulino ad Acqualunga. Ghisleri - Dov’era collocato il caseificio? Fanzani - Lo costruivano sempre fuori dalla cascina, era un ambiente staccato; oltre al caseificio c’era anche qualche porcilaia. Ghisleri - La concimaia era in cascina? Fanzani - Sì, credo che hanno cominciato a portarle fuori dalla cascina quando hanno iniziato a fare le aie in cemento, perché dopo anche alle concimaie hanno cominciato a fare i muri in cemento. Ghisleri - Vuole parlarmi del contratto di lavoro? In particolare la parte relativa ai lavori in compartecipazione. Fanzani - Nel 1925/26 prendevamo in denaro questa cifra: erano 3125 lire, sono state anche meno; in natura erano quattro quintali di frumento, tre quintali di granoturco e quarantadue quintali di legna; dopo c’era il granoturco a compartecipazione: agli obbligati davano dodici pertiche al terzo; non l’hanno più cambiato; due parti del prodotto andavano al padrone e una parte a noialtri. Le dodici pertiche venivano misurate. Mi ricordo che delle volte dicevamo: “Sembra poco”. C’era quello esperto, lo chiamavamo: “Ci imbroglia quest’anno il padrone!” Magari per coltivare altri prodotti, oppure faceva questo ragionamento: “Invece di dodici pertiche ne do undici; sono in tanti, non si accorgono, così mi avanza un campo”. Invece c’era un contadino esperto: “No, sono meno: questo campo è tot pertiche, quello tot.” Faceva i calcoli, risultavano meno pertiche; allora il padrone lo faceva misurare da un tecnico. Il padrone cercava di darci meno di dodici pertiche perché capiva che ci concedeva troppo a lasciarci una parte dei prodotti mentre lui ne teneva due; allora cercava di prendersi un po’ delle nostre dodici pertiche al terzo, cercava di rubare, e ce le dava al quarto, in modo che dopo lui aveva tre parti del prodotto e noi una. Ghisleri - Ne dava molto al quarto? Fanzani - Un campo o due, secondo. Se non aveva interesse a coltivare tanto foraggio perché c’erano poche bestie, allora, oltre le dodici pertiche al terzo, vedeva se poteva aggiungere magari tre o quattro pertiche al quarto. Ghisleri - Le pertiche che vi proponeva al quarto potevate rifiutarle? Fanzani - Chi le rifiutava? Non le rifiutava nessuno perché c’erano quelli che abitavano fuori cascina, abitavano in paese, lo prendevano al quinto. A noi obbligati, lo diceva anche il patto colonico, oltre le dodici pertiche il padrone doveva darlo al quarto, ma a quelli fuori cascina lo dava al quinto e così ne aveva quattro parti il padrone. Un anno abbiamo portato a casa l’erba alla domenica per il granoturco al quarto. C’erano tante bestie e in quattro uomini abbiamo lavorato un anno a trasportare l’erba dai campi in cascina alla domenica; e il padrone ci ha dato un campo di granoturco di venti pertiche da lavorare al quarto. Ma bisogna considerare che da quel campo aveva già ricavato il frumento, si immagina! Aver già ricavato il frumento! Alla stagione del frumento noi avevamo già lavorato mezza annata a portare a casa l’erba e a San Pietro, tolto il frumento (cercavano un po’ di anticiparlo), seminavano questo quarantino che per tanto che producesse, se arrivava a fare tre quintali la pertica era molto. Era una qualità www.orasesta.it
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di granoturco che chiamavamo taiulòn. Adesso c’è del granoturco che produce sette, otto anche nove quintali; allora per fare tre quintali doveva essere un taiulòn buono, e mi ricordo che era brutto da spannocchiare; ce lo davano a quarto, lo seminavano a S. Pietro, dunque doveva maturare in tre mesi, luglio – agosto - settembre (lo chiamavano il cento giorni); alla fine di settembre era ancora verde. Alla fine si guadagnava un paio di quintali di granoturco. Ghisleri - Mi spieghi ancora com’è questo contratto perché non ho capito bene l’erba col granoturco. Fanzani - Alla domenica mattina in quattro o cinque uomini con due o tre carri andavamo a prendere l’erba, la preparavamo tagliata al sabato; era un lavoro di un’ora e mezzo, due. Ghisleri - Cioè voi andavate a portare a casa l’erba alla domenica per avere il granoturco da lavorare al quarto e quindi ricevere un quarto della produzione. Fanzani - Non solo. Fosse stato almeno seminato alla sua stagione, nel mese di maggio, ma seminarlo in giugno, a fine giugno, era fuori del buon senso, e bisognava dire sì perché il padrone diceva: “Quest’anno ho pensato di darvi quel campo di granoturco, siete contenti?” Magari eravamo quattro o cinque che ascoltavamo, se uno sbagliava a dire: “Ma. “ “Tu niente! Tu stai fuori!” È capitato a me: (per la madonna!) gli ho detto: “Ma saranno contenti?” “Tu stai fuori! Siete contenti vero voialtri?” Gli altri rispondevano: “Sì”. “Ma mi avevate detto di dirgli che era un po’ poco!” Il primo che parlava lo metteva da parte, bisognava dire sì, bisognava accontentarsi. Una volta eravamo in tre a fare l’erba alla domenica, ho detto al padrone: “Siamo in pochi, ce ne vogliono quattro, due per carro ci arrangiamo ma se siamo in tre con due carri c’è da tribolare; chiamo un altro uomo?” “No, no.” mi ha detto, ma dopo ci ha ripensato e mi ha detto di sì. Alla domenica mattina invece di quattro siamo in cinque. Adesso siamo ancora dispari: tre erano pochi, quattro erano sufficienti, cinque sono troppi. Quello che avevo chiamato per fare il quarto dice: “E una, di feste, a lavorare per niente!” “Perché?” “Mi avevi detto che eravamo in quattro e adesso siamo in cinque”. Gli rispondo: “Ma non gliel’ho detto io a quello di venire”. Parlo col padrone: “Voleva lasciarci in tre e adesso che mi ha detto di prendere il quarto ne ha mandato un altro e siamo in cinque”. “Chi è quell’altro?” “È il tale”. Lo chiama: “Venite qua! Bigio non vi vuole!” Ha dato la colpa a me. Si immagina! Mi hanno chiamato in casa, ho preso tante parole! Vicardi - Dalla sua donna. Fanzani - Il padrone se la cava sempre. Era successo che l’anno prima il padrone aveva detto a quello che era venuto per ultimo, intanto che dividevano il granoturco al quinto: “L’anno venturo ti manderò all’erba così guadagnerai qualcosa”. E l’anno dopo è venuto ma senza dirlo al padrone: “Me l’ha detto l’anno scorso!” Il padrone invece di chiarire le cose e dire: “Ho sbagliato, vi accontenterò in un altro modo”, no, l’ha buttata addosso a un altro: “Bigio non vi vuole!” Ma io non gli avevo detto niente. San Marino, dicembre 1968
Ghisleri - Mi spieghi il lavoro del lino. Fanzani - Io ho fatto degli appunti e poi mi aiuta anche lui (Mario Chiari). Il lino lo coltivavano a file. Il primo lavoro è l’aratura. Possibilmente il terreno era una cotenna erbosa o se no un prato vecchio. www.orasesta.it
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Chiari M. - Una cotenna erbosa è ancora un prato vecchio. Fanzani - Insomma, vedi che quando parlano quelli là [indica la televisione] lo dicono anche loro due volte? Dunque, aravano con i cavalli e con i buoi. Aravano in marzo e poi si seminava. Belardi - Per San Giuseppe tra el spus e la spusa i sumèna la linusa. Ghisleri - Com’è quella? Belardi - Tra el spus e la spusa i sumèna la linusa; tra San Giuseppe e la Madonna di marzo (che è al venticinque) seminavano il lino. Fanzani - L’aratro lo chiamavano aratro a stiva. È un aratro che ha il vomere senza lo sgrasín1 davanti, e con un braccio di legno; non ha le due manette. Se adoperavano i cavalli avevano le redini, e invece se adoperavano i buoi, il bifolco aveva. Belardi - Il pungolo. Fanzani - Una pertica lunga che li raggiungeva: “Hus fa de sa! Hus fa de so!” Non sbagliavano neanche un passo questi buoi. Senza sgrasín la terra restava in costa, quella cotenna lì rimaneva in superficie, si apriva poco. Ghisleri - Vuol dire che non era troppo profonda l’aratura? Fanzani - Non tanto profonda, aravano quattro dita in modo che il lino crescesse in quel terreno grasso. Eravamo ai primi di marzo mi pare. San Giuseppe viene al diciannove, ai primi di marzo si arava, se la terra era appena discreta da poter lavorare. Quando quel terreno era pronto da lavorare (dicevano che era in se òon de lavurà), con quegli erpici che avevano allora, tiravano su tante piccole zolle. Non andava proprio sul fondo, sarà andato profondo dieci centimetri; quelle zolle davano fastidio alla semina: la terra veniva bene, ma c’erano quelle zolle. Allora seminavano a mano, si andava e si veniva, e siccome quelle zolle davano fastidio, bisognava mandare le donne a raccoglierle, e con un cavagno le donne andavano a raccogliere le zolle. Chiari M. - Si pelavano le ginocchia. Fanzani - Erano pesanti queste zolle, perché non venivano tanto sfibrate, come con certe macchine, perché le bestie andavano adagio. Quando ne avevano una spanna nel cavagno bisognava che le portassero ai margini del campo, perché dovevano essere portate via. Le donne che portavano fuori le zolle erano quelle che prendevano il lino in compartecipazione. Il lino era consegnato come il granoturco. Belardi - Secondo le donne che c’erano. Chiari M. - Secondo la forza che c’era nella famiglia. Fanzani - Sempre la forza delle donne. Era dato al terzo, come il granoturco. Dunque portavano fuori le zolle. C’era l’erba da strappare? Belardi - Lo mondavano. Per San Bernardino fioriva. Belardi - No, in maggio. Non è al ventun di maggio San Bernardino? Il lino fioriva, metteva il fiore. Vi ricordate che metteva il fiore? Dicevano: “Per San Bernardin fiurìs el grant e el picenìn”, e fioriva il lino verso il venti di maggio. Ghisleri - Dalla semina alla fioritura fanno altri lavori? Belardi - Bisognava mondarlo, ci sono dentro i papaveri, quei fiori rossi. 1 Piccolo vomere applicato davanti all’aratro, ha la funzione di mandare sotto la terra grassa il letame. www.orasesta.it
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Fanzani - Dopo quando eravamo verso la fine di giugno, finito con i bachi da seta, avevamo il lino da strappare. Se c’era una grande siccità lo irrigavano, per dopo andare a strapparlo. Chiari M. - Per far meglio a strapparlo. Ghisleri - Ne coltivavano tanto di lino? Fanzani - Saranno state coltivate tre pertiche per ciascuno. Chiari M. - Su ottocento pertiche di terra, saranno state coltivate quaranta di lino, trenta, quaranta, non di più. Fanzani - C’era un bel lavoro, sembrava poco, mi ricordo quando abitavo al Prà, in una giornata non si strappava tutto. Ghisleri - Fa anche la capsula il lino. Chiari M. - C’è dentro la linosa. Belardi - Quando va via il fiore fa la capsula. Fanzani - Quando si strappa è già secco e siamo alla fine di giugno: alla fine di maggio, metà maggio, fa il fiore, dopo ci vuole quasi un mese per poter maturare. Dentro nella capsula ci sono otto-dieci grani. Ogni gambo può fare quattro capsule o cinque, e ogni capsula ha sempre dentro otto-dieci grani; cinque per otto quaranta, può fare il cinquanta per uno. Dunque veniva strappato: a strapparlo, mi ricordo. dovrei avere qualcosa per farle vedere come si faceva. Chiari M. - Ci mettevamo chinati e con la mano, zac, zac; quando ne avevamo una manciata si facevano le capannine per ammucchiarlo. Ghisleri - Lo facevano le donne o gli uomini questo lavoro? Belardi - Andavano anche gli uomini. Belardi - Ma ci andavano anche gli uomini. Fanzani - Si faceva il fascio di lino e con la gamba, man mano, si andava avanti, quasi come a mietere e poi si legava. Chiari M. - Non si legava. Belardi - Prima di portarlo a casa si legava. Fanzani - Lo so, ma a questo punto va capovolto; la parte che era stata al sole era già secca, e bisognava far seccare la base, perché si strappava dalla terra fresca; allora bisognava farlo seccare nella base. Formavano come una rosa, in modo che restasse in piedi. Chiari M. - Rimaneva grande sotto e stretto sopra. Fanzani - Quando si era seccato andavano là, prendevano queste manciate e facevano i fasci. Chiari M. - Erano grossi come i covoni. Ghisleri - Quanto tempo ci stava nel campo? Fanzani - Ci sarà stato tre giorni. Chiari M. - Secondo i soli, perché delle volte in questa stagione il sole lo cuoce. Fanzani - Dopo questo lavoro si caricava sul carro e si portava a casa, sul fienile, ognuno aveva il suo spazio, e veniva messo con la capsula verso la parte interna, per farla maturare meglio. Sul fienile ci stava quindici giorni; dopo lo buttavano giù. Le donne dicevano: “Oggi incominciamo a batterlo sulla capsula” (smaiulà ). Gli uomini www.orasesta.it
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prendevano i deschi (li chiamavano i dès), erano come tavoli, alti di spessore, con sotto due cavalletti. Chiari M. - Non è molto che l’ho rotto. Fanzani - Sotto il portico ognuno metteva il proprio desco coi cavalletti e la quantità di lino da portare sull’aia. Sull’aia ognuno aveva il suo spazio (come per il granoturco) e mettevano i fasci in piedi per far seccare bene la capsula e al pomeriggio incominciavano a lavorarlo. Li buttavano giù dal fienile al mattino e verso l’ora del pasto erano già pronti. Intanto venivano a casa gli uomini dai campi; tanti invece di andare a mangiare lavoravano con una mazza pesante. Il fascio di lino si stendeva sull’asse, c’era una corda con attaccato un peso, la corda andava sopra il fascio, e ogni tanto con la mano gli si dava un colpetto per aprirlo un poco. Ghisleri - Questo lavoro perché lo facevano? Fanzani - Lo facevano per aprire la capsula. Era una battitura, invece della macchina da battere adoperavano la mazza pesante a battere la capsula; e per tanto che si batteva, le capsule non si battevano mai tutte, qualcuna andava giù intiera. Ghisleri - Erano dure le capsule? Fanzani - Erano dure, alcune saltavano giù intiere. Ti ricordi che dopo ci passava sopra il carro, e dopo venivano a setacciarle? Per pulire la linosa venivano i vagliatori. Ognuno lavorava al proprio mucchio; dopo, il cascame lo mettevano da parte e ci andavano su coi carri. Chiari M. - Anche coi rulli. Fanzani - La linosa veniva divisa, come d’accordo, al terzo. Dopo il cascame lo mettevano da parte per le bestie, lo spandevano per terra. Chiari M. - Quando slegavano le vacche per mandarle a bere, c’era bagnato per terra, e per non farle scivolare prendevano tre o quattro sacchi di quel cascame e lo spandevano lungo il percorso perché le bestie non scivolassero. Ghisleri - La mazza pesante com’è? Chiari M. - Col manico, una paletta alta di spessore (ce l’abbiamo ancora in soffitta). Fanzani - In modo che il contadino potesse battere senza farsi male alle mani. Chiari M. - La corda la mettevano sopra il fascio per tenerlo fermo e far meglio a battere, perché se non c’è la corda, nel battere il fascio salta per aria. Fanzani - Questo lavoro durava circa tre, quattro giorni. Dopo li caricavamo sul carro e li portavamo nella fossa. Ne avevamo tre o quattro fasci ciascuno; venivano molto alti. Ghisleri - Perché mi dice che venivano molto alti? Chiari M. - Sono ruote, sono come le ruote del mulino; le mettevano sui carri, le legavano con una corda (la chiamavano corda de múia) e le buttavano nella fossa. Ghisleri - La fossa dov’era collocata? Fanzani - La fossa era collocata sempre vicino a una roggia. Ghisleri - Era vicino alla cascina o lontano? Fanzani - Era più distante che vicino, perché vicino alla cascina non c’era la roggia. Chiari M. - La roggia aveva la bocchetta per entrare nella fossa, e restava acqua morta nella fossa. Perché quando la fossa è piena l’acqua resta ferma. Fanzani - Quando era piena la chiudevano. La fossa ha la forma di questo tavolo. Fanzani - Più lunga che quadrata, e veniva riempita di fasci; cioè cercavano di lavorare quella quantità da poter riempire la fossa, da dire “facciamo una muiáda”. www.orasesta.it
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Ghisleri - La fossa che profondità aveva? Fanzani - Sarà stata profonda tre metri. Ghisleri - D’inverno restava asciutta? Chiari M. - Dentro di acqua ce n’era sempre. Si riempiva anche di pesci. Belardi - Ricavavano il ghiaccio. Chiari L. - Quando il fosso cala la fossa si asciuga. Chiari M. - Non ho mai visto la fossa asciutta. Calerà, ma almeno un metro d’acqua c’è sempre dentro. Fanzani - Perché è più bassa del fosso. Chiari M. - Certo, altrimenti non può riempirsi. Ghisleri - L’acqua la mandavano dentro nella fossa, quando occorreva? Fanzani - La riempivano appositamente. Fermavano l’acqua là e entrava qua; quando era piena la chiudevano. Siccome era una roggia d’irrigazione, cercavano di avere l’acqua per quel momento. Quando dovevano portare il lino alla fossa, la fossa era piena, altrimenti il lino si infangava. Ognuno ci faceva il proprio segno, ci mettevano un pezzo di stoffa. Chiari M. - Uno rosso, uno verde (come fanno i segni per il granoturco), e li spingevano in mezzo. Fanzani - Dopo tre giorni bisognava girarli; adoperavano dei tridenti ricurvi. Rimaneva nella fossa sei o sette giorni. Quando venivano tirati su era difficile che restassero uniti, si sfasciavano. Allora quando la ruota si riusciva a tirarla a riva, li slegavano; uno andava a riva con un’asse, prendeva i fasci e li portavano sui carri. Bagnati com’erano, ognuno col suo carro andava a distenderli in campagna in un campo di stoppie o anche in un prato e di notte andavano a trovare le stenditrici. Ghisleri - Mi spieghi il motivo di questo lavoro. Chiari M. - Siccome il lino era macerato doveva seccare. Ghisleri - Perché lo mettevano nella fossa poi lo facevano seccare? Fanzani - Perché il lino a metterlo dentro la fossa si stacca la parte legnosa: il lino ha la fibra all’esterno e dentro c’è la lisca; restando dentro la fossa marciva la lisca. Ghisleri - E dopo a farlo seccare perché? Fanzani - Perché dopo doveva seccare quella roba. Facevano tanti piccoli fasci e diventavano secchi. Prendevano il fascio e man mano facevano come dei nidi, veniva ancora messo come quando lo strappavamo. Non è ancora la stessa mossa? Come li chiamavano? Non mi ricordo come li chiamavano. Chiari M. - È ancora un fascio come prima. Ghisleri - Mi ha detto che lo facevano di sera questo lavoro; perché? Fanzani - Una volta dicevano che andavano a destendadúri; adesso vanno a morose. Chiari M. - Andavano a destendadúri e litigavano, perché succedeva che da San Marino andavano a Persichello a destendadúri, e quelli di là volevano venire qua, dopo si picchiavano. Questi portavano via le ragazze a quelli là e quelli là volevano portar via le ragazze a questi qua. Andavano con la scusa di aiutarle, per andare a morose. Quello poi di riuscirci o non riuscirci. ma ci andavano, altroché se ci andavano. C’erano dei vecchi, ci andavano e li facevano correre anche. Fanzani - Questo lavoro lo facevano nel pomeriggio, ma non finivano prima di sera, veniva sera e ce n’era ancora, e dicevano: “Vanno a destendadúri”. www.orasesta.it
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Rimane nel campo sette, otto giorni, anche meno, perché è una stagione che fa presto a cuocerlo. Lo raccolgono ancora, fanno i fasci, e lo portano a casa. Lo portano ancora sul fienile, e man mano lo buttano giù, lo mettono ancora sull’aia per farlo seccare, perché deve proprio seccare la fibra, e dopo viene battuto. Adoperano ancora il tavolo e le mazze di legno, lunghe quasi come il tavolo. Prima si lavorava con una mano, adesso bisogna lavorare con due mani, bisogna tenere in mano due mazze, una donna per parte. Era una suonata! Tin tun tin tun, e man mano davano uno spintone con la mazza che avevano in mano, per muoverlo un po’. Lo facevano diventare quasi una stoppa. Questa è la prima battuta. Ghisleri - Questo lavoro dove lo facevano? Fanzani - Ancora sotto il portico. Veniva battuto, e dopo facevano i loro bei mucchi, i loro bei fasci; li legavano con le ritorte, vero? Belardi - Sì. Ghisleri - Questi lavori li facevano sempre le donne? Fanzani - Ma le aiutavamo noi. Se gli uomini erano al campo, c’era il bergamino: “Buttami giù anche i miei”. Era così, perché tutti i contadini non potevano essere a casa, uno ha una mansione con le bestie, o a destra o a sinistra, eravamo fuori. Io, quando mi è capitato, li ho buttati giù per me e anche per degli altri. Ghisleri - Questo lavoro a che ora lo facevate? Fanzani - Al mattino si metteva sull’aia appena c’era quella battaglia lì. Prima di andare al campo, o che era già legato, o che stava per essere legato, questo bel fascio grande, con due ritorte; li mettevamo tutti ben in ordine. Finito questo lavoro, mi ricordo che al Prà ho visto venderlo anche così. Invece in altri posti è capitato che, finito questo lavoro, lo portavano sotto le barchessine. Chiari M. - Incominciavano un’altra lavorazione. Fanzani - Prima eravamo a mezzogiorno, adesso andiamo al tramonto. Ghisleri - Non ha più bisogno di sole adesso? Fanzani - Però ha ancora bisogno di sole, gli danno ancora il sole, perché quando le donne alla mattina si alzavano di buonora, lo avevano ben protetto da dire: “Vedi che è ancora caldo?” Lo avevano messo ancora al sole, e dopo se lo mettevano ben intanato perché ne doveva venir via ancora di roba. È già stato pestato, sono venute via le lische, ma ne venivano via ancora, e restava soltanto la fibra. Ghisleri - Sotto le barchessine che lavori facevano? Fanzani - Avevano uno strumento, la scotola con il manico; era sottile ai lati; una era di legno e una di ferro. Lo schisúr era fatto pressappoco come questa sedia, in modo che entrasse il piede e la donna lo aveva proprio in vita. Batteva sempre dalla parte esterna, un po’ su, un po’ giù, e poi girava capo, fin tanto che non c’era proprio più attaccata neanche una lisca. Chiari M. - Era l’ultimo colpo. Prendeva una sberla che restava pulito. Belardi - A volte qualcuno metteva alla base della lama dello schisúr della stoppa. Fanzani - Sì, c’era un fermo. Questo lavoro lo facevano alla mattina presto, con delle lucerne ci mettevano dentro l’olio. Chiari M. - O del petrolio. Ghisleri - Perché lo facevano di notte? Chiari M. - Perché di giorno non avevano tempo. www.orasesta.it
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Fanzani - Perché di giorno avevano degli altri lavori da fare. E magari di notte avevano là qualche ragazzo che piangeva. Dovevano portarsi avanti, altrimenti non ce la facevano. Chiari M. - Guardare a una volta e poi adesso! Fanzani - Mi ricordo mia mamma: porca miseria! Le büdéli sono il cascame di questa lavorazione. Belardi - Veniva Saràca a raccoglierle. Ghisleri - Le büdéli sono differenti dalle lische? Fanzani - Nelle büdéli c’è dentro un po’ di tessile. Fanzani - Dopo questo lavoro il lino veniva pesato dal padrone e diviso al terzo. Dopo le donne facevano venire il tessitore. Belardi - Prima di far venire il tessitore bisogna filarlo. Lo pettinavano con i pettini d’acciaio. Chiari M. - Lo pettinavano con un circolo di punte di ferro, così rimaneva ben pulito. Belardi - E lo filavano facilmente. Chiari M. - Dopo passavano alla rocca. Quel lavoro lo facevano sempre di notte. Chiari M. - È tutto lavoro di vecchie, continuavano tutto il giorno, e poi erano brave. Belardi - Dopo, il fuso bisognava disfarlo, lo mettevano sull’aspo, prendevano il fuso in mano e con la manetta facevano girare l’aspo e il fuso si disfaceva. Sull’aspo facevano le matasse, e poi chiamavano il tessitore. Chiari M. - C’era anche in cascina; qualunque contadino aveva il telaio. Belardi - Ce n’erano pochi che lo avevano. Ghisleri - C’era anche in cascina il telaio? Belardi - Quando abitavo a Scandolara c’era il tessitore in cascina. Chiari M. - Aveva il telaio nella camera. Incominciava alla mattina buonora: tirlic tetèc, tirlic tetèc, tirlic, tetèc. Uscivano fuori con dei pezzi di tela e la stendevano al sole, la facevano seccare, la bagnavano perché era dura appena fatta. La stendevano sull’aia, prendevano tre bastoni, facevano un cavalletto, uno qua e uno là, ci mettevano sopra una pertica e poi ci stendevano sopra la tela. Ghisleri - Era anche tessitore il contadino? Chiari M. - Lo chiamavano tessitore, ma lui quel mestiere lo faceva a tempo perso. Belardi - Tessitore era uno del paese. Chiari M. - Dove abitavo io era in cascina, faceva il contadino nei campi e lavorava tutto l’inverno a fare la tela; per dio, ma stancava anche! Eri a letto, lo sentivi: magari lui abitava qua, tu abitavi di là, avevi sonno: tirlic tetèc, tirlic tetèc. Ghisleri - Cos’è questo tirlic tetèc? Belardi - La spòla che adoperavano, continuavano a farla girare e faceva rumore. Chiari M. - Avevano tanti rocchètti molte spòle, era un continuo lavoro, menava i piedi e menava le mani, piedi e mani, continuava a far rumore. www.orasesta.it

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