Corso do formazione

La Figura di Paolo di Tarso
Per conoscere Paolo si hanno a disposizione due tipi di fonti. Anzitutto le lettere, nelle quali troviamo notizie molto frammentarie della vita di Paolo, della sua origine, della conversione, delle fatiche apostoliche, dei collaboratori e avversari, degli itinerari missionari. Accanto alle lettere stanno gli Atti degli Apostoli, dove Paolo succede a Pietro nella funzione di protagonista a partire dal c. 13 fino alla fine. È difficile mettere in dubbio le notizie riportate dagli Atti degli Apostoli sulle vicende di Paolo, ma tenendo presente il carattere letterario e teologico dell’opera è certo che devono essere sottoposte al vaglio; in particolare viene diffidato dai critici il metodo concordistico di abbinare materialmente i dati delle due fonti. È abbastanza facile delineare il quadro generale della vita di Paolo. Nato verso gli inizi dell’era cristiana (5-10 d.C. – in via del tutto convenzionale si è scelta la data del 7), circa l’anno 35 d. C. si converte ed entra a far parte della schiera degli apostoli di Gesù Cristo; sale spesso a Gerusalemme, dove incontra Pietro e gli altri discepoli e partecipa al primo concilio degli apostoli, il cosiddetto concilio di Gerusalemme (cf. At 15). Paolo, dopo il concilio, si volge verso una intensa attività missionaria che lo rende pellegrino in tutta l’area del mediterraneo orientale, con soste prolungate ad Antiochia di Siria, a Corinto, a Efeso e a Roma, dove muore martire sotto Nerone. Riesce difficile invece indicare cronologicamente gli episodi della vita, i viaggi e la stessa morte, che viene collocata da alcuni verso gli inizi dell’impero di Nerone, da altri verso la fine. Nel trattare della vita di Paolo, il punto fermo resta l’iscrizione di Delfi, da cui risulta che il proconsole romano Gallione nel 50/51 (o al massimo 51/52) risiedeva a Corinto. Ora secondo At 18,12ss Paolo incontrò Gallione a Corinto, non sappiamo se all’inizio o alla fine del proconsolato. Possiamo dire, in ogni caso, che verso il 50 Paolo si trovava a Corinto. La cronologia paolina è stata molto vagliata e studiata, con ipotesi e risultati molto sorprendenti. Si è arrivati a proporre due schemi: 1) Quello tradizionale classico che si basa soprattutto sulle notizie contenute negli Atti
degli Apostoli; e 2) Quello critico che privilegia i dati riportati e offerti dalle lettere.
Il primo scandisce la missione di Paolo in tre grandi viaggi, pone il concilio di Gerusalemme (anni
49/50) dopo il primo viaggio, la prigionia a Cesarea nel “Biennio” 58-60, nel 60-62 il “biennio” di prigionia a Roma, nel 64 o 67 il secondo arresto e la morte. Il secondo colloca il concilio di Gerusalemme verso il 50/51 dopo il secondo viaggio missionario
che ha portato Paolo in Grecia, nel 52-55 il soggiorno a Efeso, nel 56 l’arresto a Gerusalemme e la prigionia a Cesarea, nell’inverno del 57/58 il viaggio a Roma, nel 58/60 il domicilio coatto nella capitale dell’impero, nel 60 il martirio sotto Nerone. Che Paolo sia stato un accanito avversario della chiesa nascente lo si deduce e ricava tranquillamente sia dagli Atti degli apostoli (8,1), sia dalle lettere (cf. Gal 1,13 e parr.). In ogni caso da tutte le fonti risulta che in Paolo ci fu un fenomeno particolare che lo trasformò da persecutore in Apostolo e missionario. Questo “spartiacque” viene presentato per tre volte nel libro degli Atti: nel
c. 9 lo si racconta in terza persona, nel c. 22 Paolo lo racconta in maniera autobiografica alla folla di Gerusalemme, nel c. 26 è ancora Paolo a parlarne nella deposizione davanti a Festo e Agrippa. Questi racconti danno grande rilevo: a) Alla Cristofania sulla via di Damasco; b) Alla nuova percezione che Paolo ha di Gesù di Nazareth; c) Alla straordinaria missione che gli viene affidata; d) Alla svolta che questa missione ha dato al cristianesimo nella sua fase iniziale. Nelle lettere Paolo vi ritorna in modo ora apologetico ora polemico, per difendere se stesso dagli avversari e indicare il nodo profondo su cui si regge la sua vita…(cf. 1Cor 15,8; Gal 1,15-16; Fil 3,12). Nonostante il carattere autobiografico, tutti i riferimenti sembrano sensibilmente teologizzati e riflettono una lettura retrospettiva dell’evento alla luce di tutta la vita dell’apostolo e del cammino della chiesa. Ma nessuno si prefigge di infirmare il valore storico del fatto, ciò evidenzia il carattere Nella vita di Paolo e nella sua opera si incrociano tre mondi e tre culture: ebreo per nascita e religione, si esprime nella lingua e nelle forme dell’ellenismo, ed è un cittadino romano che si inquadra lealmente nel quadro politico-amministrativo dell’impero. L’ebraismo lo segna indelebilmente sin dalla nascita. “Sono un ebreo di Tarso, in Cilicia” dichiara al tribuno romano che gli chiede le generalità all’arresto in Gerusalemme (At 21,39), indicando di essere figlio della diaspora ebraica sparsa nel mondo ellenizzato. Anche a Corinto rivendica la sua ascendenza davidica (2Cor 2,11; cf Fil 3,5-6). Nella lettera ai Romani appare la fiducia di appartenere al popolo chiamato da Dio (cf. Rm 9,3-5). In un passo addirittura affiora l’orgoglio separatista (Gal 2,15). Pur elogiando il nuovo stato di “cristiano”, Paolo vive in un clima spirituale ebraico: le date sono secondo il calendario ebraico (cf. 1 Cor 16,8); due volte gli Atti lo presentano nel voto di nazireato (At 18,18; 21,17-26). La bibbia è il libro guida, che egli usa alla maniera dei rabbini, seguendone metodi di lettura e interpretazione (midrasim, cf 1Cor 10,1-10). Gli Atti contengono la notizia della sua “crescita” a Gerusalemme e della “formazione” (At 22,3). Si deve anche alla tradizione ebraica l’aver appreso un mestiere, che nel caso di Paolo era quello di “fabbricatore di tende” (skenopoios), termine generico che da adito a diverse interpretazioni: tessitore di peli di capre per formare stoffe ruvide a vario uso, come il cilicium, cosiddetto dalla regione della Cilicia ove era confezionato, oppure lavoratore delle pelli e del cuoio per fabbricare tende di varia destinazione. Ma questo ebreo era di lingua greca e tarsiota, cioè di tarso di Cilicia (At 21,39). Tarso, sul fiume Cidno, era a quel tempo all’apogeo del suo splendore di città ellenistica e cosmopolita. Era une delle patrie dello stoicismo. Paolo conobbe sicuramente questo tipo di pensiero e ne assimilò tratti etici, come l’ideale dell’autosufficienza (cf. Fil 4,11: autarkes), e filosofico-religiosi, come la trasparenza di Dio nel Mondo (cf. Rm 1,19-20). Tutta la sua atività si colloca in una temperie culturale ellenistica: usa il greco con disinvoltura e in maniera personale; non gli sono estranee né le forme né le figure (cf. Rm 5,20; 6,4s; 8,7.26; 2Cor 7,4; Gal 2,19; Fil 3,10; Ef 2,6; Col 2,12; 3,1ss). Alcuni vocaboli del mondo culturale greco vengono piegati a esprimere contenuti e significati nuovi, conformi al suo significato teologico: si pensi alla dilatazione che ha dato a termini come carne (sarx), spirito (pneuma), peccato (hamartia), salvezza (soteria), amore (agape), giustizia (dikaiosyne), libertà (eleutheria), servitù (doulotes). In particolare il suo pensiero è sollecitato dalla situazione esistenziale e culturale che incontra, al punto che si può parlare in lui di una vera e propria “inculturazione” della fede in contesti diversi da quello ebraico-gerosolimitano in cui era nato (cf le lettere Efesini e Colossesi). Ma quest’uomo ebreo e greco si autopresenta in tutte le lettere con il nome di Paolo, probabilmente già dalla nascita insieme a Saulo, che i genitori gli avevano attribuito a ricordo del primo re della tribù di Beniamino. Nella cristofania di Damasco la voce lo chiama alla maniera ebraica “Saul, Saul”(At 9,4). Per Paolo le autorità sono a servizio di Dio… (cf. Rm 13,4-5). Nelle sue difese ha rivendicato le garanzie giuridiche che spettano a qualsiasi cittadino romano (cf. At 22,28). Nella sua missione Roma figura il vertice, quale centro e base di una più grande evangelizzazione, che avrebbe dovuto portarlo fin nella Spagna (cf. Rm 15,22-24), nella parte occidentale del mediterraneo, dopo aver lavorato nell’arco orientale. Comunque a Roma coronò il sogno della sua vita e della sua attività con il martirio. Il Più Grande Missionario Cristiano Il libro degli Atti offre una narrazione ordinata dell’opera missionaria di Paolo. Essa si svolge prevalentemente in quella parte costiera del Mediterraneo chiamata “L’ellisse dell’ulivo” (Deisemann), toccando le città di Damasco, Tarso, Antiochia di Siria, Cipro e l’Anatolia suborientale; seguono quindi le città di Filippi, Tessalonica, Berea, Atene, Corinto in Europa, Efeso capitale della provincia romana di Asia, e Roma capitale dell’impero. Tale struttura geografica viene confermata dalle lettere, anche se non si segue sempre la stessa linearità che invece troviamo negli Atti. Intenzionalmente Paolo sceglieva i grandi centri urbani e le città dal commercialmente fiorenti, soprattutto quelli ancora non toccati dal vangelo, dove cercava di far sorgere una piccola comunità cristiana che veniva animata e preseduta da persone particolarmente dedite e generose (cf. 1Cor 16,15-16; 1Ts 5,12-13). La metodologia missionaria di Paolo, a differenza degli altri predicatori, ha di mira i popoli che non i singoli individui; per questo appare veramente singolare che Paolo non abbia mai preso in considerazione una città popolosa e significativa come Alessandria d’Egitto. Ha la netta coscienza fin dagli inizi di essere chiamato ad evangelizzare i Gentili (Gal 1,16) e questa vocazione gli viene ratificata da Pietro e dagli apostoli (Gal 2,9-10). Il metodo di comunicare il vangelo si compendia nella Parola, nell’Esempio e nell’Amore: una
parola che non è semplice veicolo o trasmissione verbale, ma è permeata, intrisa dallo Spirito a dalla potenza di Dio che interpella gli uomini per mezzo dei suoi inviati (cf. Rm 1,16; 2Cor 5,20; 1Ts 2,13). Poiché il vangelo non è una teoria ma un modo di esistere, Paolo sa di doverlo trasmettere con la sua esistenza, nell’esercizio di ciò che comporta. I due termini chiave che rendono bene l’idea paolina sono (Modello) e (Imitatore) (cf. 1Cor 4,16; 1Ts 1,6; 2Ts 3,7; Fil 4,9). La parola parte dall’amore e tende alla “edificazione” , cioè alla costruzione e alla crescita spirituale dei singoli e della comunità. Paolo lo ricorda ripetutamente nelle sue lettere (cf.Gal,4,15; 2Cor 4,15; 5,14; 6,12; 1Ts 2,7-8.12). Essa è pronunciata in fedeltà e lealtà di spirito davanti a Dio e agli uomini (cf. 1Ts 2,1-12), con la franchezza (parrhesia 2Cor 3,12; Fil 1,20; Ef 3,12) e la limpidezza cristallina ( eilikrineia, 2Cor 2,17) che si addice ai ministri della nuova alleanza. Per giungere al cuore di tutti Paolo sa farsi “tutto a tutti” (cf. 1Cor 9,12-23). Il contenuto essenziale del suo messaggio è quello della “tradizione” (paradosis) apostolica: Gesù di Nazareth morto e risuscitato per la salvezza di tutti gli uomini (cf. 1Cor 15,1-15; Gal 1,6-8; 2,5.14). Il messaggio non poteva restare lettera morta ma esigeva di essere tradotto in uno stile di vita concreto e reale, destinato a produrre “creature nuove” (cf. 2Cor 5,17); per questo Paolo si fa educatore e pastore, e moltiplica tutte le sue energie, le sue risorse e non smette mai di dedicarsi alla causa del vangelo. Il vocabolario usato da Paolo nell’evangelizzazione ruota a termini quali: “dice”, “evangelizza”, “annunzia”, “esorta”, “prega”, “desidera”, “incoraggia”, “scongiura”, “ammonisce”, “dà istruzioni”, “ingiunge”, “dispone”, “insegna”, “rende noto”, “persuade”, “conforta”, e non esita a inculcare l’apertura verso i valori che una sana tradizione custodisce (cf. Fil 4,8; 1Ts 5,21; 1Cor 3,22-23). Il campo missionario di Paolo e sempre pieno di individui che insidiano ed ostacolano l’opera di evangelizzazione. Queste persone sono veri e propri avversari, con i quali Paolo è costretto a misurarsi appassionatamente. La maggior parte dei nemici è costituita da quei giudeo- cristiani integralisti che gli rimproveravano di aver rinnegato l’eredità ebraica, non imponendo i dettami della legge mosaica; quindi senza valore sarebbe la sua pretesa autorità apostolica. In ogni caso è da precisare che qualitativamente gli avversari cambiano in base ai luoghi che Paolo visita. La reazione di Paolo è fondata sul terreno dei principi e dell’apologia personale. Egli si batte innanzitutto per la “verità del vangelo” (Gal 2,5-14), cioè che la salvezza è data gratuitamente da Dio a tutti semplicemente per la fede in Cristo morto e risorto, e poi rivendica senza mezzi termini il suo carisma apostolico (cf. Gal 1,1.15-16; 2, 9; 1Cor 9,1-2; 15, 3ss; Fil 2,4-6). LE LETTERE
Anche se avessimo soltanto le lettere di Paolo, esse basterebbero già a collocarlo tra i grandi scrittori dell’antichità. Più che la quantità colpisce e stupisce l’intelligenza, l’acutezza del pensiero e l’immediatezza esistenziale. Sono state scritte per la missione e risultano essere un’ottima integrazione della stessa. Contengono una parte di dialogo molto importante e di estremo interesse. Tredici sono le lettere che gli sono state attribuite, e una quattordicesima, la lettera agli Ebrei, gli è stata ascritta fin dal II secolo, pur non essendo scritta da lui, anche se l’autore veste benissimo i panni di Paolo (cf. 13,23-25). Delle tredici lettere, sette sono ritenute da tutti autentiche (1Ts; 1e2Cor; Gal; Rm; Fil; Fm): scritte tra gli anni 50/60, sono gli scritti più antichi di tutto il Nuovo Testamento. Le altre lettere sono considerate “dubbie”, si è propensi a vedere la mano di qualche discepolo o si è realizzato il fenomeno della pseudografia, un’usanza in voga in quei secoli. Abbiamo “le lettere principali” (Rm; 1e2Cor; Gal), le “lettere della prigionia” (Fil; Ef; Col; Fm; 2Tm); poiché le lettere a Tito e Timoteo si caratterizzano come un gruppo a sé e trattano argomenti attinenti alla pratica, vengono denominate “lettere pastorali”. Si tratta di lettere che si rivolgono a un destinatario preciso e non a un pubblico generico, sono legate a determinate ragioni, affrontano questioni che riguardano situazioni concrete e di orine pastorale, contengono comunicazioni e saluti. In ogni caso troviamo intere sezioni di argomentazioni teologiche che fanno da filo logico a tutto il contenuto delle lettere (1Ts 4,13ss; 1Cor 10.13.15). Le lettere ai Galati e ai Romani sono trattazioni teologiche, ma conservano il carattere di vere lettere alle rispettive comunità. Lettere nate dalle esigenze della missione me nel contempo lettere pastorali e apostoliche destinate a costruire le comunità. Il modulo espositivo è ampiamente dialogico; spesso egli fa esporre obiezioni da un presunto interlocutore o gli rivolge domande retoriche per avere modo di presentare la risposta (cf. Rm 2,1.21; 1Cor 15,29-35). E’ lo stile classico della diatriba, in uso nella tradizione e nella prassi pedagogica cinico-stoica contemporanea. Abbiamo un uso molto frequente delle antitesi (luce/tenebre, morte/vita, libertà/schiavitù, carne/spirito etc.), indice e segno di una personalità vivace, operativa e senza mezzi termini. Possiamo dire con certezza che le comunità leggevano le lettere (cf. 1Ts 5,27) e se le scambiavano (cf Col 4,16). Non sappiamo neanche se qualcuna sia andata perduta; in 1Cor 5,9 Paolo parla di una precedente lettera che non ci è pervenuta. La stessa cosa è da dire per la “lettera delle lacrime” (cf. 2Cor 2,4). Una raccolta degli scritti di Paolo deve essere iniziata abbastanza presto. La seconda lettera di Pietro attesta l’esistenza, verso la fine di I secolo, di un corpus paulinum (cf 2Pt 3,15-16). Verso la metà del II secolo Marcione considera canoniche le lettere di Paolo, escluse Timoteo e Tito. Il Papiro 46 (200 circa ) riporta dieci lettere, inclusa Ebrei, escluse Filemone e le pastorali. Il Frammento Muratoriano (180 circa) cataloga tredici lettere,esclusa Ebrei. Ma tutte le lettere di Paolo, escluso Filemone, si trovano citate in Ireneo di Lione, verso la fine del II secolo: ciò fa supporre che abbia avuto tra le mani una raccolta delle lettere dell’Apostolo. Gli autografi delle lettere sono andati irrimediabilmente perduti; si possiedono tuttavia oltre 5.000 copie manoscritte, un patrimonio eccezionalmente importante e ricchissimo. Si segnalano 10 papiri del III secolo, frammentari, che precedono i grandi codici unciali completi, il Sinaitico e il Vaticano, del IV secolo. Il più importante resta sempre il Papiro 46. L’importanza storica di Paolo sta nel fatto che egli fu un vero teologo (Bultmann), infatti egli si pone rigorosamente in un quadro dottrinale già proprio del cristianesimo primitivo, del quale sottolinea e sviluppa alcuni aspetti sulla base della sua esperienza personale e della sua particolare vocazione apostolica. Paolo mantiene fermi i suoi rapporti con l’ebraismo; rimangono concordanze fondamentali riguardo al disegno di Dio, all’alleanza, alla fede, al messianismo, ma vi è una differenza radicale che è la fede in Gesù Cristo morto e risorto, il quale segna la fine della “legge” (Rm 10,4) e inaugura una nuova alleanza universale alla quale tutti possono partecipare mediante la fede. Tale sembra essere il centro del pensiero di Paolo, quello che egli chiama “il suo vangelo” (cf. All’origine e base di tutto sta il disegno ( = mistero) salvifico del Padre ispirato da un amore eterno e comunicativo, il quale chiama tutti gli uomini alla grazia e alla gloria (cf. 2Ts 2,13-14; 1Ts 5,9-10; Ef 1,9.11; 3,11; Rm 5,8-11; 8,28-30.38; 9,11; Ef 1,3-14). Insieme all’amore frontale del Padre vengono chiamate in causa anche la Sapienza, la Potenza e la Giustizia divina (Rm 11,33; 16,27). Nella tradizione dell’AT la giustizi salvifica di Dio rappresenta per l’umanità il bene supremo e l’aurora della salvezza. Paolo si connette a questa tradizione al punto che per lui Dio che chiama alla grazia e alla gloria è anche il Dio che “giustifica” (cf. Gal 3,8; Rm 3,26.30; 4,5; 8,30.33.) In quest’opera di giustificazione salvifica Gesù Cristo opera la funzione essenziale ed indispensabile di mediatore (cf. Rm 3, 24.26). Captiamo nello specifico l’opera mediatrice di Gesù Cristo nel disegno di salvezza attuato dal Padre. Tutto procede dal Padre. E’ lui che ha mandato il Figlio nel mondo dei peccatori per salvarlo (Gal 4,4; Rm 3,25-26; 4,25; 8,3.35.39; 2Cor 5,18). Ma l’insistenza con cui Paolo sottolinea l’iniziativa del Padre non deve offuscare in nessun modo il ruolo di Gesù Cristo e il posto assolutamente centrale che la sua persona tiene nella mente dell’Apostolo. Se il Padre… il Figlio ha dato se stesso (Gal 1,4; 2,20; 1Tm 2,6; Tt 2,14; Ef 5,2.25). Tutto ciò che viene attribuito al Padre, Paolo non esita ad attribuirlo al Figlio che vive ed opera in perfetta sintonia con il Padre. Il sacrificio della Croce, seguito dalla risurrezione, resta l’atto supremo ed eccellente della salvezza Incontriamo alcuni vocaboli e concetti fondamentali della soteriologia Paolina. 1) Apolytrosis = redenzione, riscatto, liberarazione da… nella versione greca della LXX troviamo il significato autentico di questo termine, dove la grande redenzione consiste nella liberazione dalla servitù dell’Egitto e nella speranza messianica, quando Dio “redimerà Israele da tutte le sue colpe” (Ps 130,7-8). Questo concetto dell’AT viene applicato all’opera di Gesù Cristo compiuta sul Calvario. “Diede se stesso per noi… “ (Tt 2,14). Si realizza misticamente ma realmente nei cristiani quello che fu sperimentato dagli Ebrei nella 2) Hilasterion = propiziatorio il vocabolo con il quale viene presentato l’atto redentore di Gesù Cristo (Rm 3,24-25), rimanda al contesto dell’AT (cf. Lv 16,15-19). Coperchio d’oro collocato sull’arca dell’alleanza nel santo dei santi, ornato da due cherubini, il propiziatorio era il segno della presenza divina e in particolare il luogo del perdono di Dio mediante l’aspersione del sangue sacrificale fatta dal sommo sacerdote nel gran “giorno dell’espiazione”. L’Apostolo vede realizzarsi nella croce, cosparsa del sangue di Cristo al momento della sua morte, ciò che significava il rituale levitino, cioè la comunione spirituale tra il popolo e Dio mediante l’offerta del sangue. Secondo il levitico la comunione spirituale tra Dio e il suo popolo rotta dal peccato veniva restaurata dall’offerta del sangue che rappresenta la vita dell’uomo (Lv 17,11). Nella medesima prospettiva viene veduto da Paolo 3) “Compera” – “Prezzo” (cf. 1Cor 6,20; 7,23; Gal 3,13; 4,5). Questa “compera” evoca essenzialmente l’acquisto che Dio si era fatto del suo popolo al tempo dell’alleanza (Es 19,6) per l’attuazione dei suoi disegni. C’è ancora un rimando ai testi e contesto dell’AT. Tipicamente paolino è il modo di intendere l’opera di Cristo come riconciliazione. Questo tema ricorre principalmente nella seconda lettera ai Corinzi. Come sempre, l’iniziativa parte sempre da Dio; Gesù ne è l’agente e il mediatore, l’uomo come destinatario ne risulta intimamente rinnovato e ricreato (2Cor 5,17-20). 4) Thysia = Olocausto. Un grande testo della lettera agli Efesini presenta la morte di Gesù Cristo come “olocausto”, come sacrificio che è al tempo stesso l’espressione del suo amore per gli uomini (Ef 5,2). La tradizione apostolica aveva già sanzionato la formula: “Cristo è morto per i nostri peccati”(1Cor 15,3). Paolo ha concepito essenzialmente questa morte come un atto supremo di obbedienza e di amore (Rm 5,19; Fil 2,5-11). 5) Espiazione o Soddisfazione data per un altro e al suo posto: Cristo, si dice,”non avendo conosciuto peccato, Dio lo ha fatto peccato per noi, affinché noi diventassimo giustizia di Dio in lui” (2Cor 5,21). Cristo è diventato peccato in quanto si fece portatore volontario del peccato degli uomini per eliminarlo, con allusione a Is 53,10, in cui il Servo del Signore offre la sua vita in espiazione (asam) per i peccati del suo popolo, e in forza di ciò riceverà “in eredità i popoli e genti infinite come bottino”. Una buona sintesi dell’insegnamento paolino sulla redenzione si trova in Tt 2,13-14. La redenzione che si acquisisce in Cristo è per Paolo una salvezza attuale e presente, ma il suo compimento rimane ancora nell’attesa. Non si avrà che con la risurrezione dei corpi, quando ci sarà la manifestazione gloriosa di Cristo (1Cor 13,12; 15,12-25; Rm 8,4.11; 1Ts 4,14). Dicendo risurrezione non si intende redenzione dal corpo, bensì redenzione del corpo,cioè della totalità del soggetto umano (Rm 5,9; 8,23; Tt 3,5;Ef 2,5-6; Gal 3,28). Si tratta di uno stato certamente acquisito, ma la cui pienezza sarà donata alla fine dei tempi, precisamente alla manifestazione di Cristo alla fine della storia (cf.il concetto “già” e “non ancora”). Qui si innesta, in dimensione corale e cosmica, il dinamismo della speranza, fondamentale nell’esistenza cristiana secondo Paolo (cf. Rm 5,5; 8). La Gaudium et Spes n° 39 ha collocato questa prospettiva escatologica in chiara connessione con il progresso umano. Come si applica e giunge all’uomo l’opera redentrice di Cristo? Come può l’uomo partecipare ai frutti della salvezza operata da Cristo. Si tocca uno dei punti nevralgici della teologia paolina. Si attinge alle fonti della redenzione e della salvezza mediante la fede. Per questo pistis- pisteuein sta al vertice della nomenclatura paolina, e la fede è al centro del suo vangelo. E’ per la fede che l’uomo vive agli occhi di Dio (Rm 1,17). Il tema della fede occupa un posto centrale nella lettera ai Galati e soprattutto nella lettera ai Romani. La fede è la risposta personale dell’uomo all’iniziativa di Dio che ci viene incontro con la sua parola e i suoi interventi salvifici (Rm 10,14s; Gal 1,11s). Credere (pisteuein) significa accettare come reale e salvifico il fatto della risurrezione di Gesù (Rm 4,24-25; 10,9; 1Cor 12,3; 15,1-19; 1Ts 4,14; Fil 2,8-11), mentre il sostantivo fede (pistis) viene talvolta usato per indicare il contenuto della predicazione apostolica (Rm 10,8; Gal 1,23; Ef 4,5; etc). La salvezza viene dalla fede e non dalle opere della legge (Rm 3,20.28), ma la fede è attiva nell’amore e si espande in frutti di carità (Rm 8,14; 1Cor 6,9-11; Gal 5,25; 1Ts 1,3). L’operosità non è il risultato di una riflessione umana, ma è dono di Dio (Ef 2,8-9) ed è prodotta gratuitamente nell’uomo dallo Spirito Santo e dalla Potenza di Dio (Rm 3,27; 4,2-5; 1Cor 12,3; 2Ts 2,13). Esistenzialmente è una consegna di sé a Cristo, che dio ha risuscitato (Rm 10,9), mettendo tutto il proprio essere in relazione con Dio. La lettera agli Ebrei contiene una definizione di fede (10,38) e la illustra con l’esempio dei santi dell’AT (c.11). E’ conoscenza ne senso biblico del termine, in quanto afferra tutto l’essere e influisce sulla sua condotta; comporta fiducia assoluta nel Dio vero e vivente, appoggio esclusivo su di lui e ubbidienza (Rm 1,5; 617; 2Cor10,4;1Ts 1,6;2Ts 1,8). Essa fa sperimentare nei cuori l’opera di Dio (Rm 5,5). Investendo tutto l’essere, è fedeltà nella prova (1Cor 16,13; Fil 1,29; Ef 6,16; Col 1,23; 1Ts 3,2) e progresso continuo nella conoscenza di Dio, che diventa sapienza e “superconoscenza” (epignosis) (1Cor 1,19; 2Cor 10,15; Ef 3,16-19; Fil 3,8-10). Unita alla speranza e alla carità, la fede non cesserà che nel cielo (1Cor 13,13). Offerta a tutti senza distinzione alcuna di nazione, di classe o di sesso, è suscitata dalla parola degli apostoli ed è a disposizione di ogni uomo, anche se non di tutti è la fede (Rm 10,8.14-18; 2Ts 3,2). Nell’itinerario verso la salvezza la fede si esprime nel battesimo, il quale diventa l’atto sensibile e significativo di accesso alla chiesa. Anche se personalmente Paolo non sembra dedicarsi particolarmente al rito battesimale (cf. 1Cor 1,14-17), tuttavia la sua dottrina è chiara ed offre diverse spiegazioni dell’evento. Congiunto alla fede, il battesimo fa partecipare alla morte e alla risurrezione di Gesù, immergendo il catecumeno nella morte di Cristo per renderlo partecipe di una vita nuova sul modello del risorto (Rm 6,3-5; Col 2,12; cf. 1Pt 3,18-21). E’ un bagno purificatore (Ef 5,26), un sigillo (2Cor 1,22; Ef 1,13; 4,30), una illuminazione (Ef 5,8-14; Eb 6,4), una circoncisione nuova che soppianta l’antica (Col 2,11-13), un lavacro di rigenerazione (Tt 3,5). Esso è segno di unità dei credenti che sono chiamati a vivere la stessa vita di Cristo (Ef 4,5; Gal 3,27). Tra i mezzi dell’appropriazione personale della salvezza si deve ancora annoverare chiaramente per Paolo l’Eucarestia: la prima lettera ai Corinzi presenta la “cena del Signore” come “comunione” con il corpo e sangue di Cristo e come principio di unità per la chiesa (10,16-17). Essa è il “calice della nuova alleanza” (1Cor 11,25) che sancisce la convocazione del nuovo popolo di Dio in cammino verso la patria celeste (cf 1Cor 10,3-4. 11-12). La redenzione attuata da Gesù Cristo ha come conseguenza naturale una nuova antropologia. Chi entra nel raggio dell’azione salvatrice di Cristo mediante la fede diventa “una nuova creatura” (1Cor 5,17; Gal 3,27; 4,5; 6,15; Ef 1,4; 4,24; Col 3,10; Rm 8,15-17.23). Chi è “in Cristo” – formula emblematica di tutto l’esistere cristiano con una forte densità di significato- riceve lo Spirito che gli dà la liberazione interiore dal peccato e dalle prescrizioni contingenti della legge (Rm 8,2-3; Gal 5,1). In virtù del battesimo il cristiano forma con i suoi fratelli un corpo solo che è il “corpo di Cristo” (1cor12,12ss.27), un corpo di cui Cristo è “capo” (Col 1,18; 2,19; Ef 4,15; Gal 3,26-29). I credenti sono trasferiti “nel regno del Figlio del suo amore” (Col 1,13; cf 1Ts 2,12) ed hanno in prospettiva l’eredità del regno (Ef 5,5). In un passo celebre Paolo compendia il soggetto cristiano nella triade spirito, anima e corpo: pneuma, psiche, soma (1Ts 5,23). Questo nuovo modo di essere dell’uomo si traduce spontaneamente in un nuovo modo di operare che scaturisce dalle radici dell’essere rinnovato. L’etica di Paolo è tutta consequenziale alla nuova situazione ontologica del cristiano. Per questo nelle lettere (Rm, Ef, Col) le indicazioni morali seguono la parte dottrinale espositiva. Il cristiano deve vivere in maniera degna e conforme alla vocazione cui è stato chiamato (Ef 4,1; Col 1,10; 1Ts 2,12; Gal 5,22-25; 1Cor 6,15-20). Anche la catechesi riportata in Rm 6, 4-13 parte dall’esperienza dell’inserzione in Cristo per dare un’esortazione nel presente, prospettando un traguardo che sarà raggiunto solo alla fine per donazione divina. Lo Spirito Santo, che è lo Spirito di Cristo, è la vera legge interiore del cristiano per Paolo, che vede realizzarsi Ger 31,31-34 e Ez 36,25-27 sulla legge nuova scritta nei cuori e sullo Spirito principio di azione interiore (cf Rm 8,2; Eb 8,8-12; 1Ts 4,9; Gal 5,18.22-23). La grande traiettoria etica in cui immette lo Spirito è la Carità (1Cor 13; cf Ef 4,15-16). Insieme alla carità, la fede e la speranza formano la grande triade distintiva della vita cristiana che ne informa interiormente tutta l’atività (cf. 1Ts 1,3; 1Cor 13,13; Rm 5,1-5), modificandone lo stile di azione e creando nuovi rapporti sociali tra padroni e schiavi (1Cor 7,21-23; Fm 16), tra marito e moglie, genitori e figli (Col 3,18; Ef 5,22ss), cittadini privati e istituzioni pubbliche (Rm 13,1-7; 12,18), imprimendo alle comunità un ruolo profetico di prefigurazione di una nuova umanità e di un nuovo ordine di cose (cf. Fil 2,15; Col 3,14-17). Ci si può domandare a questo punto quale sia, secondo Paolo, la posizione degli Ebrei e dei non Cristiani nei confronti della salvezza, dal momento che non condividono la fede in Gesù Cristo. Il problema, per noi, è diventato attuale dopo il Vaticano II, ma si può dire che era presente già nel cuore di Paolo che viveva quotidianamente a contatto sia con i suoi fratelli d’Israele, nella maggioranza chiusi alla fede cristiana, sia con le folle incontrate nelle città greco-romane, dove la percentuale dei convertiti era così piccola da parere trascurabile. Paolo tocca il problema nella lettera ai Romani 2,7-9.14-16. L’insegnamento di Paolo è chiaro: ogni uomo, per sua natura, qualunque sia la sua origine, ha la legge di Dio scritta nel cuore e se la osserva riceve la giustificazione dello Spirito, perché vera circoncisione “non è quella esteriore, nella carne… ma quella del cuore…” (cf Rm 2,28-29). Il “dettame della legge” o l’opera della legge” scritto nei cuori è da ritenere l’amore attivo verso il prossimo, conforme alla regola d’oro che si trova nel NT (Mt 7,12), nell’AT (Lv 19,18; Tb 4,15) e in tutte le grandi religioni. Più articolato e sofferto in Paolo è il problema degli Ebrei che non hanno aderito alla fede nel Signore Gesù. Ne tratta ampiamente in Rm 9-11. Paolo dice che essi sono “primizia santa”, “radice santa”, “ulivo buono” sul quale le genti sono state innestate (Rm 11,16.24). Ora la parola di Dio non è venuta meno (Rm 9,6), Dio non ha ripudiato il suo popolo (Rm 11,1), irrevocabili sono i doni e la chiamata (Rm 11,29). Ciò significa che l’antica alleanza non è stata mai abolita e che il disegno divino sul suo popolo si compirà. Ché se la loro caduta è stata occasione di salvezza per le genti, “che cosa non sarà la loro pienezza?” (Rm 11,11). E qui viene la misteriosa affermazione: il loro accecamento parziale è avvenuto finché non sia entrata la pienezza delle genti, “e allora tutto Israele conseguirà la salvezza…” (Rm 11, 26.30-31). La redenzione e la salvezza vengono offerte agli uomini nella storia attraverso il ministero degli apostoli, “ministri di Cristo e dispensatori dei suoi misteri” (1Cor 4,1). La chiesa è chiamata a comunicare a tutti gli uomini la “multiforme sapienza di Dio” (Ef 3,9-10). Perciò molteplici e diverse sono le funzioni affidate alla chiesa a questo scopo (Ef 3,11-13). Nel disegno di Dio la salvezza è legata all’evangelizzazione (cf. 1Ts 2,16) che si serve delle scritture (Rm 16,25-26) per far nascere la fede in tutte le genti, ma l’evangelizzazione suppone l’attività dei missionari (Rm 10,13-14). Paolo è assillato dall’urgenza di annunciare il vangelo (cf. Rm1,1; 1Cor 10,16; 2Cor 4,13; 5,14). Appare di qui l’importanza fondamentale della “Parola” dell’annuncio, in ordine alla diffusione della salvezza (1Ts 1,5; 2,1-12; 1Cor 2,1-5). Depositari della “parola della riconciliazione” (2Cor 5,19), gli apostoli ne esercitano il ministero in qualità di “collaboratori di Dio” (2Cor 5,18; 6,1). Nelle lettere pastorali vengono impartite disposizioni perché la “parola” venga trasmessa fedelmente alle generazioni future, fino all’avvento del Signore (cf. 2Tm 2,1-2; cf. 4,1; Tt 1,9; 1Tm 3,2). Subordinatamente alla “parola” anche il battesimo e la cena del Signore annunciano e attualizzano la morte di Gesù Cristo e i credenti sono chiamati a prendervi parte per diventare partecipi della sua risurrezione (1Cor 11,26; Rm 6,5). Gli atti sacramentali hanno sempre finalità soteriologica. PAOLO E GESU’
La persona e l’opera di Gesù dominano la vita e il pensiero di Paolo ed hanno ragione i critici che vedono nella cristologia la “struttura fondamentale” del suo pensiero e della sua opera. Tuttavia vi sono due rilievi da fare. Il primo è che Paolo non mostra grande interesse per la biografia storica di Gesù; la sua attenzione si concentra tutta sul duplice evento della morte e risurrezione. Il secondo è che, mentre Gesù annuncia l’imminenza e la venuta del Regno di Dio, Paolo predica che la morte e la risurrezione di Gesù sono l’evento capitale della storia e che nel Cristo morto e risorto Dio salva per grazia tutti gli uomini. Lo scarso interesse di Paolo per la biografia terrena di Gesù non è indifferenza per l’aspetto storico, ma Paolo vede come presente o come presente cominciato nel passato ciò che per Gesù è futuro. Inoltre, si fa rilevare la continuità tra l’annuncio di Gesù e la predicazione di Paolo, sottolineando come Gesù abbia presentato già chiaramente se stesso come punto di incontro tra gli uomini e Dio (cf. Lc 12,8-9; 14,26), abbia avuto coscienza di sé quale Figlio di Dio (cf. Mc 14,36), rivelandosi superiore alla legge (cf. Mt 5,21ss) e con il potere di rimettere i peccati (Lc11,20). Se poi si tiene presente che tra la predicazione “prepasquale” di Gesù e la teologia di Paolo è avvenuto il mistero pasquale e tutto il seguito (cf At 10,47-48), il rapporto tra la cristologia implicita di Gesù e quella esplicita di Paolo appare in termini di sostanziale continuità storica. “Il Cristo creduto e proclamato da Paolo non è altro dal Gesù manifestatosi nel suo dire e nel suo fare. L’evento nuovo della risurrezione, che separa Gesù da Paolo e dal cristianesimo primitivo, non costituisce solo l’esplosione delle forze del nuovo mondo del Risorto, diventato perciò “spirito creatore di vita” (1Cor 15,45), ma anche la legittimazione del potere escatologico (exousia) di perdonare i peccati rivendicati dal Gesù storico (Mc 2,10) e incarnato nella sua condivisione della mensa dei peccatori (cf. Mc 2,15-17; Lc 19,1-10). D’altra parte si spiega il disinteresse di Paolo per quanto il Nazareno ha detto e fatto. Privo dell’esperienza dei discepoli storici, fattosi cristiano e apostolo in forza della “visione” del Risorto, inserito nel cristianesimo di lingua greca della Siria, egli ha concentrato tutta la sua attenzione sulla morte e risurrezione di Cristo, vertice della rivelazione (apokalypsis) del Padre di Gesù. Gli bastava mantenere e sottolineare che il Risorto, visto con gli occhi della fede, è per identità personale Gesù di Nazareth finito in croce” (G. Barbaglio, Paolo di tarso e le origini cristiane, p.250). In altre parole, tra Gesù terreno e Paolo si collocano la morte e risurrezione di Gesù, culmine della sua vita e principio del mondo nuovo. La comunità primitiva formulando l’annuncio evangelico aveva additato qui il cardine dell’evento messianico e il compimento del disegno di Dio per gli uomini: Gesù è morto “per noi”, “per gli empi”, “per i nostri peccati”, “per tutti”. Paolo ha fatto sua questa formula (cf. 1Cor 1,13; 11,24; 2Cor 5,14.15.21;Gal 1,4; 2,20; 3,13; Rm 5,6-8; 8,32; 14,15; Col 1,24; Ef 5,2.25), puntando secondo il suo genio all’essenziale e ne ha fatto praticamente la base di tutta la sua cristologia. Tra Gesù e Paolo si pone così quale anello di congiunzione la comunità cristiana primitiva, con la quale e l’apostolo condivide la fede e la predicazione, anche se il suo speciale carisma è la vocazione lo hanno condotto a sviluppare aspetti propri. PAOLO NELLA CHIESA
La presenza di Paolo nella chiesa è sempre stata stimolante e tale risulta fin dalle origini cristiane. Si è già detto della seconda lettera di Pietro, dove lo stesso Pietro si appoggia a Paolo riconoscendo l’autorità (3,15-16) del “carissimo fratello”. Analogo abbinamento a Pietro ed esaltazione della loro autorità nella Prima lettera ai Corinzi di Clemente e nella Lettera ai Romani di Ignazio di Antiochia. Policarpo si riferisce ripetutamente a Paolo nella Seconda lettera alla chiesa di Filippi, confessando di non “poter mai avvicinarsi alla sapienza del beato e glorioso Paolo”. L’Epistula Apostolorum, un apocrifo scritto negli anni 160- 170, ne tesse l’apologia sottolineandone l’investitura divina; la Lettera a Diogneto mostra una profonda conoscenza e assimilazione del pensiero paolino; la Lettera di Barnaba dimostra una sicura conoscenza del suo insegnamento, mentre nessun accenno di Paolo si trova nella Didaché. Ireneo di Lione (verso la fine del II secolo) a conclusione del libro IV dell’Adversus Haereses prende Paolo a difesa della fede cristiana: “Dobbiamo ancora aggiungere, dopo le parole del Signore, la parole di Paolo, esaminare il suo pensiero,esporre l’Apostolo, chiarire tutto ciò che dagli eretici, i quali non capiscono affatto ciò che ha detto Paolo, ha ricevuto altre interpretazioni, mostrare la stupidità della loro follia e dimostrare, proprio a partire da Paolo, dal quale derivano le loro obiezioni contro di noi, che essi sono mentitori, mentre l’Apostolo, araldo della verità, ha insegnato tutte le cose in pieno accordo con la predicazione della verità (Adersus Hareses IV,41,4). Da allora Paolo continua la sua presenza dinamica nella chiesa. Senza di lui non sarebbe pensabile né la teologia cristiana né la storia stessa del cristianesimo. Basti pensare all’influsso esercitato dalla sola lettera ai Romani sulla storia spirituale dell’occidente. Barbaglio G., Paolo di Tarso e le origini Cristiane, Assisi 1985 O’Connor J. M., Paolo, Un uomo inquieto, un apostolo insuperabile, Cinisello Balsamo 2007 Penna R., Paolo, in Dizionario Teologico Interdisciplinare, Torino 1977 Segalla G., Panorama storico del Nuovo Testamento, Brescia 1984

Source: http://www.laparrocchia.vidyo.biz/files/paolo_di_tarso.pdf

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